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IL PARADOSSO A 5 STELLE. MENO BEPPE, PIÙ GRILLINI

canditati-m5s-matteoderricoL’apparente successo di Beppe Grillo in queste elezioni regionali è nato da una silenziosa rivolta interna contro di lui. La sua narrativa aggressiva. Le sue grida. I suoi occhi strabuzzati. Il suo muro contro muro. I suoi «o con noi o contro di noi». La sua energia grandiosa ma sempre diretta a demolire. I suoi no a prescindere. No euro. No Bce. No Renzi. No Salvini. No Palazzo. No immigrati. No politica. No accordi. No e basta, scrive sul quotidiano La Stampa Andrea Malaguti.

Una rivolta guidata involontariamente – è sempre difficile confessarsi che si vuole uccidere il padre – dagli uomini a lui più vicini. A cominciare dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio – più flessibile, meno manicheo, eppure fedele alla linea – diventato naturalmente la guida dal basso di un Movimento che vince a dispetto del Fondatore. O, comunque, grazie all’assenza del Fondatore. L’uomo senza il quale nulla sarebbe stato possibile.

E con il quale tutto rischia di diventare impossibile. «La verità è che ci stiamo cominciando a muovere sulle nostre gambe senza più bisogno di Beppe», spiega con apparente ingenuità Antonella Laricchia, la ventenne che ha guidato i Cinque Stelle a un sorprendente secondo posto in Puglia. Replicando, a sua insaputa, una analisi consegnata proprio da Luigi Di Maio. «E’ andata bene perché abbiamo fatto meno piazze, meno palchi e più lavoro sul territorio». Meno piazze e meno palchi. Cioè meno Grillo. E più amministratori locali finalmente credibili. Un paradosso che va spiegato.

Dopo il disastroso risultato delle elezioni europee del 2014, – il punto più basso del Grande Viaggio 5 Stelle – Grillo dava l’impressione di essere assalito dai dubbi. Da una sensazione catastrofica. Tormentato dall’idea di essere diventato inutile. «Mi farò passare l’amarezza col maalox», ripeteva.

Per evitare di rimanere schiacciato da una creatura sognata, inventata e incarnata anche fisicamente dal suo corpo da palcoscenico e da quello ieraticamente inquietante del suo alter ego razionale, Gianroberto Casaleggio, aveva deciso di fare un passo indietro. Si era defilato. Nascosto. Ammutolito. Basta sceneggiate. Basta comparsate televisive. Basta comizi, diventati improvvisamente poco gratificanti. Si era inventato il Direttorio. Pretoriani chiamati a metterci la faccia al posto suo. Cinque parlamentari. Diventati, nei fatti, il seme di una mutazione genetica che avrebbe trasformato il Movimento in Partito. O in qualcosa di molto simile.

La scelta del direttorio fu la pietra tombale sull’idea tanto suggestiva quanto sgangherata dell’uno vale uno e soprattutto del sacro dogma in funzione del quale l’unica intelligenza che esiste è quella del web. Il web conta. Ma le persone di più. Nei palazzi. E soprattutto sui territori. Ed è lì, nei territori, che parlamentari ed attivisti si sono rimessi a lavorare, lasciandosi alle spalle teorie cyberpolitiche per rimettere le mani sui problemi veri. Don Gianni, parroco di Quarto, comune ad altissima infiltrazione di camorra, racconta di avere votato 5 Stelle perché si è accorto del lavoro sano, porta a porta, che i candidati grillini si erano rimessi a fare. È ancora Antonella Laricchia a spiegare la svolta. «Abbiamo capito che è una maratona. Abbiamo sbagliato a dire: vinciamo noi. È più efficace: vinciamo poi». Ma è sempre Luigi Di Maio , membro del direttorio con delega agli enti locali, e nuovo front man catodico, a guidare la rinascita.

Intransigente nei dibattiti televisivi, più duttile nel rapporto con i colleghi degli altri schieramementi – considerati interlocutori e non più nemici – Di Maio ha spento i tumulti intraparlamentari e tessuto una rete di relazione con i sindaci pentastellati. La rete territoriale è diventata più forte della rete virtuale. Il messaggio si è trasformato, passando da regione in regione. Non più: tutti a casa. Piuttosto: reddito di cittadinanza per tutti. Molto diverso. E molto meglio.

Così il radicamento locale ha sradicato il dirigismo grillocasaleggese. Il disastro delle europee è stato superato garantendo, per la prima volta, il rilancio amministrativo. A questo punto – di fronte a un risultato vicino a quello monumentale delle politiche 2013 – si è ripresentato Beppe Grillo. E qual è stata la prima cosa che ha detto? «Noi accordi non ne facciamo». L’uomo che cercava il futuro è ripiombato nel passato.

A questo punto l’alternativa è semplice. Banalizzando: se vince la linea del Fondatore l’isolamento e la marginalità sono garantiti. Se vince la linea Di Maio il Movimento può diventare un fattore imprescindibile negli equilibri politici nostrani. Soprattutto con l’Italicum in vigore. I 5 Stelle sono secondo partito quasi ovunque. E ai ballottaggi saranno decisivi. Ancora di più aprendosi ad alleanze di programma come Podemos in Spagna e non rinunciando a giocare prima che l’arbitro fischi. Invitando Grillo a un dignitoso ruolo di Padre Nobile ed evitando di farlo sentire come il barone di Munchausen che cerca di uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli. Sgradevole sensazione, quella di essersi trasformato da re a reietto.

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La Stampa